AI Literacy: perché la formazione sull’intelligenza artificiale non è più un’opzione

Ai literacy: perché la formazione sull’intelligenza artificiale non è più un’opzione

Nel contesto attuale, dove l’intelligenza artificiale sta rivoluzionando non solo i processi produttivi, ma anche il modo in cui si prendono decisioni operative, la formazione sul tema diventa una necessità strategica per le aziende. Non si tratta più solo di un aggiornamento tecnico per gli addetti ai lavori, ma di un’alfabetizzazione trasversale che coinvolge ogni livello aziendale. Questo concetto prende il nome di AI Literacy e non è un suggerimento, ma un obbligo sempre più vicino all’attuazione, sancito a livello normativo, in particolare dall’AI Act europeo.
Molti lavoratori si chiedono se questi corsi servano a prepararli a essere sostituiti dalle macchine. La realtà è ben diversa. L’obiettivo è invece quello di rendere tutti, non solo tecnici e sviluppatori, consapevoli delle opportunità, dei limiti e dei rischi dell’IA. La normativa infatti prevede che le aziende che implementano sistemi di intelligenza artificiale siano tenute a fornire formazione adeguata ai propri dipendenti, calibrata in base all’uso effettivo che ciascuno ne farà. Non è sufficiente un’introduzione teorica: serve una comprensione profonda delle implicazioni etiche, giuridiche e organizzative.
Alcune realtà si stanno già muovendo in questa direzione con programmi di formazione avanzati. Booking, ad esempio, ha strutturato corsi per i propri legali dedicati alla comprensione degli algoritmi antifrode, mentre IBM propone percorsi sfidanti attraverso Watson, coinvolgendo l’intera forza lavoro. Non si tratta di iniziative isolate: aziende come Fastweb, Generali e Telefonica stanno investendo in percorsi formativi personalizzati su larga scala. La chiave è proprio questa: non basta formare genericamente, ma è essenziale adattare i contenuti alle responsabilità e ai ruoli.
Il framework che guida questi processi si chiama AI Literacy Competence Framework (ICA), una griglia di competenze che mette in primo piano la consapevolezza critica sull’uso dell’IA. Serve comprendere come gli algoritmi influenzino la selezione del personale, l’analisi delle performance o la gestione delle richieste dei clienti. Non si tratta solo di sapere come funziona un modello, ma anche di prevedere le conseguenze sociali e comportamentali delle sue applicazioni.
L’ostacolo più grande resta però culturale. Molte organizzazioni mostrano ancora una resistenza al cambiamento profondo, spesso limitandosi ad azioni formali e superficiali. Il rischio concreto è quello del cosiddetto AI washing, cioè una formazione vuota, fatta solo per ottenere una certificazione da esibire. Ma la normativa è chiara: non basta il pezzo di carta, occorre monitorare l’impatto reale della formazione attraverso metriche concrete, come già fanno alcune aziende pilota documentate nel living repository europeo.
L’Europa, con questa accelerazione normativa, sta cercando di guidare lo sviluppo tecnologico senza perdere di vista i diritti e la dignità delle persone. È un equilibrio delicato, ma necessario. La spinta verso l’alfabetizzazione diffusa rappresenta una vera e propria svolta di policy, perché interviene non solo sull’adozione degli strumenti, ma sulla capacità collettiva di comprenderli e governarli.
Ignorare l’AI Literacy non rallenta l’arrivo dell’intelligenza artificiale. Al contrario, espone le organizzazioni a rischi maggiori, perché un utilizzo inconsapevole può tradursi in discriminazioni, errori sistemici e decisioni dannose. La formazione, se ben costruita, non è un costo ma un investimento, e costituisce la base per garantire che l’innovazione sia davvero al servizio delle persone.
È un passaggio inevitabile, e chi inizierà per tempo a costruire cultura diffusa e consapevolezza interna, sarà in grado non solo di essere conforme alla legge, ma di distinguersi in un contesto competitivo sempre più attento a etica, trasparenza e responsabilità.
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